Di carne e di marmo il desiderio - Ilaria Gasparroni

DI CARNE E DI MARMO IL DESIDERIO

mostra personale di Ilaria Gasparroni
a cura di Elena Saccardi
testo critico Giulia Maria Letizia Romanini

dal 24 febbraio al 14 aprile 2018
Cubo Gallery, via la Spezia 90, Parma


Di carne e di marmo il desiderio 
Ilaria Gasparroni

C’è un mondo culturale e di poesia dietro le sculture di Ilaria Gasparroni, artista dall’anima gentile che trae la sua ispirazione a partire dai testi letterari.
Dalla letteratura latina a Dante Alighieri, per arrivare ai più contemporanei Pirandello, Pavese e Montale: prima della realizzazione di un’opera, parte sempre dallo studio degli autori.
La mostra che verrà inaugurata il 24 febbraio presso la CUBO Gallery, a cura di Elena Saccardi e testo critico di Giulia Maria Letizia Romanini, nasce dopo una gestazione di tre anni durante la quale le sculture sono state scelte una ad una e, in certi casi, aspettate.
È proprio con l’attesa che inizia il racconto.
Dall’attesa di sé all’attesa dell’altro: le opere di Ilaria Gasparroni raccontano quel flusso continuo di desiderio e di tensione che muove ciascuno verso la scoperta del senso della propria vita e verso l’incontro con gli altri individui.

“Sulle spine”, in marmo di Carrara, spine rosa e legno, è una scultura che raffigura le scarpette con le punte di una ballerina, con la suola attraversata da spine. Così come quella ballerina che noi vediamo volare, leggera, sul palcoscenico, ha i piedi che dolgono e molte sofferenze alle spalle, l’opera vuole raccontare tutto il percorso di fatica e di speranza che ogni individuo compie quando si mette in gioco e si sacrifica per ottenere qualcosa di bello. Ilaria Gasparroni racconta: “questa scultura è nata in un momento particolare, appena prima di ottenere il successo dopo tutti i miei sacrifici”. Tutto sommato, è proprio grazie alla perseveranza e alla passione che i desideri passano da uno stato di attesa a uno stato di azione ed è in quel momento che tutte le spine trovano un senso.

Con una delicatezza quasi antica, l’artista ci narra il momento in cui la consapevolezza di sé, dopo le sofferenze e le fatiche, si compie serena e si pone al centro del mondo con la forza di chi conosce se stesso: “Dolcezza” è il ritratto di una donna forte e decisa e proprio per questo capace di tenerezza. L’opera, in marmo di Carrara, esprime una femminilità da riscoprire come uno stato di grazia. Attraverso il volto si percepisce l’interezza di corpo e anima, mentre la nudità è svelata solo attraverso una spalla scoperta, mentre tutto il resto del busto è coperto da morbidi drappi: un invito a riscoprire il mistero, una delicatezza che pare essersi persa nella concitazione contemporanea, sempre più bulimica di didascalie ai sentimenti e verità così crude da essere snaturate.  
Ispirata ai versi danteschi “Mostrasi sì piacente a chi la mira | che dà per gli occhi una dolcezza al core,| che ’ntender no la può chi no la prova”, questa Madonna contemporanea esprime una dolcezza tutt’altro che remissiva: è una presenza assertiva, carica di umanità e futuro… Anche in questo caso c’è attesa, c’è la promessa di un desiderio e di un amore fecondo. 

Di carne e di marmo al contempo, la scultura “Il bacio” si staglia con ieratica perfezione a immortalare l’attimo che precede il contatto più intimo fra due anime. Ispirata dai gruppi scultorei del Musée Rodin, Gasparroni ha voluto dare corpo alle parole di Cesare Pavese, quando nelle Poesie del disamore scriveva “la donna volge il viso accostandogli la bocca alla bocca... la bocca dell’uomo s’accosta. Ma l’immobile sguardo non muta nell’ombra”. Gli occhi dei due protagonisti non sono raffigurati: manca tutta la parte superiore dei loro visi, per enfatizzare il loro essere completamente protesi, nella totalità della loro presenza, verso le labbra e l’essenza dell’altro.

Ci parla di desiderio e contatto tra anime anche “Possesso e protezione”, una realizzazione unica che, come tutte le opere di Ilaria, nasce da una storia reale: le sue sculture sono sempre il calco di persone scelte in modo univoco tanto che, quando il soggetto prescelto per un certo progetto non si rende disponibile, tale progetto viene abbandonato o rimandato.
In questo caso è stato fatto il calco a due parti del corpo unite in un gesto: la mano di un uomo posata sulla caviglia di una ragazza. La modella ha raccontato di essersi sentita protetta da quel gesto, mentre l’uomo, suo compagno nella vita, ha percepito una sensazione di possesso: anche in questo caso, Gasparroni ci parla con dolcezza di incontri caldi, umani, calati nel presente ma sublimati dalla grazia. Per descrivere questo dialogo muto, rubato a un gesto subitaneo, fatto di marmo ma che pare vivo, riecheggia Montale: “Tu sola sapevi che il moto | non è diverso dalla stasi, | che il vuoto è il pieno e il sereno | è la più diffusa delle nubi.

Più complessa la storia della composizione “[dí(s) ‘doppio’ - morphé ‘forma’]”, un’opera che allude al Giano bifronte e che “esprime il contrasto tra vita e forma, ossia tra realtà e possibilità, tra fissità e fluidità, tra ciò che siamo e ciò che facciamo vedere di essere”.
Il volto di un uomo e il volto di una donna si guardano, a distanza. Entrambi sono deformi e deformati: il viso di lui è reso deforme attraverso l’utilizzo del marmo nero Portoro, scuro e maculato, mentre quello di lei, un autoritratto dell’artista, ha i tratti somatici disassati e innaturali.
Posta in mezzo alle loro facce, una lente ribaltata: qual è la forma reale? Quale immagine vedono gli altri di noi? Quale quella che pensiamo noi? Quale quella che vorremmo?


Infine, si sublima nei contrasti materici “Vanitas”, citazione contemporanea alle tipiche composizioni Seicentesche sulla caducità della bellezza e della vita stessa: dei fiori secchi fragili, una clessidra vitrea e glaciale e una mascella pesante e marmorea, sineddoche scultorea per il più classico teschio. Ci dice “memento mori”, come lugubre presagio di un tempo che non sarà più, oppure, piuttosto, nella sua sintesi formale, ci esorta a un più consapevole “memento vivere!”? Vivete, viviamo, gustiamo la dolcezza dell’attesa, del desiderio e del presente, del nostro esserci di carne, di marmo, di spine. E non perché il tempo fugge e dobbiamo graffiare il giorno ma perché, sopra ogni cosa, l’amore e il desiderio, la tensione verso l’altro e l’incontro, dilatano il tempo all’infinito e danno senso a tutte le memorie, a tutte le presenze, a tutte le speranze.
(testo Giulia Maria Letizia Romanini)